Scese dall’autobus con un movimento goffo e restò immobile a guardarlo mentre chiudeva le porte ripartendo in una nuvola di gasolio. Il rumore grasso del motore scomparve lentamente dietro alla curva per far posto al silenzio.
Alzò da terra le valigie in cui aveva stipato tutta la sua vita e attraversò il parcheggio nella penombra livida del mattino, seguendo il tratteggio di luce fioca dei pochi lampioni.
Raggiunse le scale e si guardò intorno. Forse per essere certo che nessuno lo stesse osservando o semplicemente per ricordarsi il mondo.
Chinò la testa e iniziò a scendere. I gradini in pietra erano scuri e bagnati dalla rugiada della notte. Gli si fece incontro il profumo del bosco. Lo stesso in cui l’aveva abbracciata l’ultima volta.
Si fermò. Il suo respiro spingeva piccole nuvole a confondersi con la nebbia.
Accompagnato dal cinguettio timido dei primi uccelli al risveglio, proseguì lungo la scalinata che sembrava non aver fine; per distrarsi iniziò a contarne gli scalini e superò i duecento quando si trovò davanti al cancelletto in ferro. Mentre lo fissava si trattenne dal maledire la giacca che nascondeva tasche dietro a ogni cucitura, ma quando la mano intorpidita raggiunse uno scomparto interno, finalmente le trovò. Scaldate dal tepore umido del maglione in lana. Le fissò per qualche secondo nel palmo aperto e s’immaginò che fosse la chiave più grossa, quella destinata a custodire quel luogo.
Seppur con qualche resistenza, la serratura scattò e un cigolio si fece largo tra i suoni di quel giorno appena nato. Poi anche l’inferriata si richiuse alle sue spalle appesantendo l’aria con un tonfo metallico e sgraziato.
Raggiunto il porticato appoggiò la schiena al muro freddo e lo sentì. Bastò un solo passo per sporgersi oltre gli archi che delimitavano il lungo corridoio e vederlo. Pochi metri sotto di lui il suono delicato della risacca accompagnava sulle rocce un susseguirsi di onde lente. Stette per qualche istante a respirare il lago ancora nascosto dalle brume quindi spinse il massiccio portoncino ed entrò.
Nel locale il freddo era ancor più pungente e il grande camino sembrava costruito solo per sostenere santi e cavalieri che si accalcavano in un affresco sopra di lui. Sul lato opposto raggiunse a passo svelto una porta che si spalancò su un cortiletto riparato da un’impressionante bastionata rocciosa. Questa volta non indugiò. Passò sotto le fronde incolte dell’oleandro e s’infilò nell’edificio di fronte imboccando la scala che si arrampicava ripida verso il secondo piano. Scelse la prima stanza. Era spoglia, con un letto gonfio di materasso al centro di una parete, e un severo armadio poco distante. Appoggiò le valigie, si strinse nel bavero e scomparve nel cappuccio prima di abbandonarsi al sonno.
Quando riaprì gli occhi la luce radente di quel pomeriggio d’inverno invadeva la camera e alcune foglie mosse da un generoso spiffero gli danzavano intorno graffiando il pavimento.
Si mise seduto con un balzo. Era il momento.
Tolse la giacca senza indugio, quindi fece lo stesso con il maglione griffato e la camicia che portava le sue iniziali sul taschino. Li piegò con cura maniacale e li ripose insieme ai pantaloni in una sacca nera. Aprì il bagaglio e si cambiò in fretta. Non badò ai capelli ricci ancora arruffati dal sonno e non mise ordine alla barba incolta. Si limitò a svegliare i suoi occhi scuri con il dorso bagnato della mano e piegò il collo di lato fino a sentirlo schioccare.
Scese di nuovo in cortile, si affacciò dal muretto in pietra che strapiombava sull’acqua e lasciò libero lo sguardo: davanti a sé il lago era azzurro e immenso, con la sagoma delle isole Borromee e il profilo scuro delle montagne sulla riva opposta. Osservò il campanile sorgere dalla roccia a pochi passi da lui e la chiesetta addossata alla parete verticale.
Respirò quell’aria nuova fino a riempirne i polmoni quindi si sedette e iniziò a leggere un libro.
O forse a scriverlo.
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